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I dati più antichi conosciuti sono quelli scoperti da Hernandez Pacheco
nel 1921.
Risale a 7000 anni prima di Cristo, periodo mesolitico, la più
antica raffigurazione dell’uomo in atto di carpire il miele all’ape:
si tratta di diverse pitture rupestri
rinvenute nelle Grotte del Ragno (Cuevas de la Araña) di Bicorp,
presso Valencia in Spagna. Per
comprendere il senso di questo tipo di raffigurazioni
dobbiamo tener conto del fatto che nei dirupi di questo
territorio le api facevano il nido nelle crepe delle rocce;
gli sciami abbondavano nel grande Paredon de la Rebolia.
Nelle immediate vicinanze della grotta in cui sono state
ritrovate le pitture, e anche nel periodo in cui sono state
scoperte, era pratica corrente tra i contadini di
approfittare delle fredde giornate invernali per calarsi con
funi e scale sulle pareti di roccia per prendere i favi.
Passeranno secoli finché non saranno scoperti, nel complesso
delle fonti storiche, riferimenti ad api, miele e cera, ma è
assai significativo un fatto: sui più antichi documenti
scritti conosciuti, le tavolette d’argilla della civiltà
mesopotamica, che datano a partire dal 2700 a.C., vi sono
passi che descrivono il miele come medicina.
Nel corso del tempo il miele è stato accettato come uno
degli alimenti più preziosi accessibili all’uomo. Secoli fa,
quando i popoli primitivi vivevano a stretto contatto con la
natura, erano obbligati a procurarsi il cibo andandosene in
giro a cercarlo. Man mano che facevano la loro comparsa le
più antiche civiltà, il miele era rappresentato e lodato
negli scritti di diversi autori. È stato menzionato nella
Bibbia, nel Corano e nel Talmud, ed era assai apprezzato da
Romani, Greci ed Egizi.
In effetti, in ciascun territorio abitato dalle api esiste
la stessa credenza legata ai poteri miracolosi del miele,
utilizzato sia come alimento che come farmaco. Gli antichi
greci lo chiamavano il “Nettare degli Dei”; autori e
luminari di numerose civiltà ritenevano che tale nettare
fosse un alimento meraviglioso, depositario di benefiche
qualità medicinali.
I più antichi documenti riguardanti l’utilizzo della cera
provengono dalle antichissime civiltà sviluppatesi nell’area
compresa tra il Tigri e l’Eufrate, dove nel 5000 a.C. circa
si parlava già la lingua sumerica, e nel 4000 a.C. ha fatto
la sua comparsa la scrittura su tavolette d’argilla.
In Irak, a Nippur, sono stati scoperti due frammenti di
ceramica la cui datazione stimata è di circa 2100-2000 a.C..
Considerati i più antichi documenti che fanno riferimento al
miele e alla cera scritti in lingua sumerica, contengono un
testo che riporta una serie di medicine e unguenti a base di
tali prodotti. Nell’antico Egitto le rappresentazioni di
soggetti apistici sono numerosissime e l’ape era presente nei
cartigli che raffiguravano i nomi dei faraoni. Già nel 3000 a.C.
erano in uso arnie, di argilla o altro materiale, Memorie scritte,
risalenti al 3000 a.C., ci indicano come nell’antico Egitto
l’apicoltura nomade fluviale, lungo il corso del Nilo, fosse una
pratica comune: dato che la stagione dell’Alto Egitto era più
precoce che nel Basso Egitto, gli apicoltori spostavano le loro api
lungo il fiume, seguendo la progressione delle fioriture. E’ di
questo periodo, inoltre, la rappresentazione di scene raffiguranti
l’estrazione del miele da arnie villiche e la sua conservazione in
vasi di forma sferica. Come simbolo grafico, l’ape venne usata fin
dall’età arcaica per designare la regalità del Basso Egitto:
riferimenti alle api si trovano sul sarcofago Menca (3600 aC). Dalla
prima dinastia faraonica (3200-2780) fino al periodo romano, i
titoli dei re dell’Egitto erano sempre associati al simbolo
dell’ape: infatti il “cartiglio” contenente il nome del re era
preceduto da un’ape, emblema di sovranità e di comando. L’ape,
stilizzata, era rappresentata in diverse tombe e sulle
statue, essendo il simbolo stesso del re del Basso Egitto
nel 3200 a.C. Dal 3100 a.C., il profilo dell'ape operaia
venne utilizzato nei geroglifici come simbolo topografico
dell'Antico Egitto.
I
primi disegni ritrovati mostrano un insetto con quattro zampe e due
ali mentre la testa, il torace e le bande sull'addome sono
rimarcate, così come le antenne. Sono state trovate raffigurazioni
di alveari risalenti al 2400 a.c. Di quel periodo sono quattro le
rappresentazioni con tale soggetto; una di queste mostra come si
usasse l'affumicatore per tranquillizzare le api. Inoltre, poiché i
favi estratti dagli alveari sono di forma tondeggiante, l'apicoltore
doveva sapere come posizionare la famiglia d'api in modo da ottenere
favi perpendicolari all'arnia cilindrica, messa orizzontale.
Dalla Mesopotamia all’antica Cina,
alle civiltà Greca e Romana, le testimonianze del rapporto uomo-ape
si moltiplicano a dismisura.
Anche se non vi sono scritture sulle api e l'apicoltura, le
rappresentazioni grafiche suggeriscono che la tecnica apistica
raggiunse livelli più alti che in ogni altro posto.
Ancora oggi l'apicoltura tradizionale nell'Alto Egitto è rimasta
simile a quanto descritto ed un metodo similare d'allevamento è in
uso, ai giorni nostri, anche sulle coste del Nord Africa.
Sempre in Egitto, in seguito allo studio di
alcune piramidi, si è potuto constatare che gli Egizi
conservavano la frutta nel miele, e per l’imbalsamazione dei
corpi, insieme ad altre sostanze, erano utilizzati lo stesso
miele e la cera.
Tra il 2050 ed il 1950 a.C., in Assiria, durante e dopo il periodo
di Sargon I, i corpi dei morti erano trattati con cera e seppelliti
nel miele. Nel 2000 a.C. Mosè, nel “Pentateuco”, fece cenno del
miele portato in Egitto dagli Ebrei, i quali allevavano le api
secondo apposite leggi che regolavano l’apicoltura.
Anche la Cina possiede scritti che si riferiscono al miele,
risalenti al 1300 a.C..
Nel X secolo a.C., il re babilonese Salomone parlò del miele e dei
favi in
molti suoi scritti.
I Greci forniscono numerosissime notizie sul miele; l’arte di
“allevare api” venne perfezionata nella Magna Grecia: i Greci
trasportavano nei loro giardini dei nidi di api per assicurarsi
l’abbondanza della raccolta dei frutti, forse intuendo già la
grandissima importanza dei pronubi per la fecondazione incrociata.
Omero, nel 1194 a.C., nelle sue rapsodie sulla guerra di Troia,
parlò di api e di miele; Esiodo, nel 780 a.C. parlò di regina, di
fuchi e di operaie. Nel VII secolo a.C., il legislatore ateniese
Solone, con una legge, stabilì che nessuna arnia nuova dovesse
essere posta ad una distanza minore di trecento metri da quelle già
esistenti. Pericle, nel 461 a.C., riferì che la sola Attica, in
Grecia, aveva oltre
20.000 alveari che costituivano la ricchezza dei loro proprietari,
poiché questa era proprio la regione che vantava il miele di timo
più pregiato del mondo antico, quello dell’Imetto; il filosofo e
matematico greco Pitagora esortava i propri seguaci a cibarsi,
praticamente di pane e miele, garantendo loro lunga vita. In tale
epoca si riteneva che ogni colonia contenesse un'ape più grande, che
veniva considerata il leader o il re e che si pensava fosse di sesso
maschile (come, d'altronde, la maggior parte dei leader). I testi greci elogiavano quest'ape più grande per
la sua abilità di leadership e per la sua saggezza fuori dal comune.
Alcuni testi enumeravano e celebravano le caratteristiche femminili,
altre quelle maschili delle api. In tutti i casi le api erano
considerate come sottomesse al loro leader, da cui non volevano e
non potevano separarsi. Le descrizioni ritrovate, in ogni caso,
contengono una interessante quantità d'affermazioni importanti: si
spiegano le caratteristiche del comportamento d'Apis mellifera
abbastanza correttamente, anche se mancavano sulle api alcune
basilari cognizioni biologiche e fisiologiche.
Nel Periodo Ellenistico (323 - 31 a.c.) era diffuso e prevalente poi
il concetto di "bugonia" (nato da un bue). Tale idea,
presumibilmente, traeva la sua origine dalla cultura e conoscenze
della civiltà egizia. Per produrre uno sciame d'api, un bue doveva
essere ucciso senza romperne la pelle e il corpo dell'animale doveva
essere avvolto con delle erbe e chiuso in una speciale costruzione
per nove giorni, trascorsi i quali sarebbe apparso uno sciame d'api.
La mitologia greca racconta che Giove è stato nutrito dalle
api del Monte Ida, che hanno prodotto miele a questo scopo.
In quelle regioni, la prima moneta al mondo di cui si abbia
notizia, recava impressa un’ape come simbolo di solerzia.
Questa moneta apparteneva alla civiltà di Efeso, del 4°
secolo a.C..
I Romani tennero il miele nella massima considerazione. La richiesta
del miele eccedeva la produzione tanto che, da sempre,
importarono il miele e altri prodotti delle api (in particolare la
cera, utilizzata moltissimo come isolante, per l'illuminazione, per
la costruzione delle tavolette su cui scrivere, per
impermeabilizzare e cosi via) da Creta, Cipro, Spagna e Malta, il
cui nome originale, Meilat, pare che significhi appunto “terra del
miele”; utilizzavano molto miele, unico dolcificante allora
conosciuto, nell'alimentazione e per la preparazione del vino di
miele (il famosissimo idromiele), della birra di miele, come
conservante alimentare, per la preparazione di numerosissime e
famosissime salse agrodolci, per i dolci. Lo scavo archeologico di
un impianto completo di alveari, presso una fattoria (costruita tra
il IV ed il III secolo a.C., ma ancora in funzione in età romana e
bizantina) a Vari, nell’Attica, ha portato alla luce arnie di
terracotta costituiteda due elementi fondamentali ed uno aggiuntivo:
un vaso a pan di zucchero, alto 53,5 cm e dal diametro
all’imboccatura di 36 cm, con un coperchio circolare munito di
cinque fori per il passaggio dello spago e di una piccola apertura a
forma di semiluna per l’entrata ed uscita delle api.
Plinio il Vecchio, stimato enciclopedista
romano, si occupa ampiamente delle api e dei loro prodotti
nella sua opera “Storia naturale”. Come altri luminari
dell’epoca, presenta numerosi e dettagliati utilizzi della
cera, il che dimostra che si conosceva il metodo di
estrazione, purificazione e perfino di sbiancamento della
cera d’api.
Lo sbiancamento si praticava soprattutto a Cartagine, dove
il prodotto ottenuto assunse il nome di “cera punica”.
L'arnia di paglia intrecciata era largamente diffusa al tempo di
Carlo Magno.
L'attenzione di Carlo Magno alla cura delle terre a lui sottoposte
giunse fino a stabilire l'obbligo che in ogni podere lavorasse anche
un apicoltore, con il compito di badare alle api e preparare miele e
idromiele.
In India il miele è apprezzato, profondamente rispettato e capito
nella sua essenza. Le scritture indù, sono ricchissime di citazioni
sul miele e di paragoni in cui esso viene utilizzato come simbolo di
bontà, bellezza e virtù. II miele era apprezzato particolarmente
anche nell'antichissima medicina Ayurveda, che risale a più di
tremila anni fa, ma è ancora utilizzata in India e anche in
Occidente. La medicina ayurvedica indica il miele come purificante,
afrodisiaco, dissetante, vermifugo , antitossico, regolatore,
refrigerante, stomachico, cosmetico, tonico, leggermente ipnotico,
cicatrizzante; ma la profondità con cui questo tema viene trattato
fa sì che a ogni specifico stato morboso o disfunzione corrisponda
un particolare tipo di miele.
L'apicoltura razionale ebbe inizio quando l'uomo per avere in
abbondanza il miele decise di allevare le api entro contenitori. Nel
corso dei secoli c'è stata una lenta evoluzione delle tecniche
apistiche: dalle arnie costituite da un solo contenitore a favi
fissi, in seguito sono state utilizzate arnie a favi fissi ma con
due corpi e infine arnie a telai mobili tuttora in uso.
Quasi certamente il prototipo di arnia primitiva è stato un tronco
cavo, l'uomo si è limitato a tagliarlo e chiuderlo alle due
estremità realizzando cosi un'arnia. Il più antico studio sulle api
di cui si ha conoscenza fu effettuato da Aristotele, il grande
filosofo, che lo utilizzò per scrivere il trattato "Storia naturale
degli animali”. Altre fonti
letterarie (°) da cui si possano ricavare precise
indicazioni sulle caratteristiche tecniche delle arnie sono quelle
latine, quali il "De re rustica" di Columella (4-70 d.C.),
la
"Res rustica" di Varrone e la "Naturalis Historia" di Plinio il
Vecchio: si parla di arnie costruite con la corteccia di sughero,
quelle ottenute con l'intreccio di ferule o di vimini di salice,
quelle ricavate nei tronchi d'albero cavi o fabbricate con assi di
legno di quercia, faggio, pino o fico, costituite da tavole a forma
di parallelepipedo poste orizzontalmente con il fondo posteriore
mobile. Varrone ricorda come le arnie di vimini di forma rotonda
vengano spalmate sia all'interno che all'esterno di letame bovino
misto a calce o cenere, per seccarlo e far perdere il cattivo odore.
Varrone parlò anche delle tecniche apistiche e, dalle sue opere,
deduciamo che l’apicoltura era una pratica commerciale già
consolidata in molti paesi del bacino mediterraneo. Egli, d’accordo
con Columella, sosteneva che le peggiori arnie erano quelle di
terracotta, le quali risentivano moltissimo del freddo durante
l’inverno e del caldo in estate. Varrone, inoltre, parlando delle
arnie, poneva l’attenzione sui “chiuditoi a tergo, mobili, per
tirare fuori i favi”. Plinio e Columella riferirono anche della
grande importanza attribuita all’esercizio dell’apicoltura nomade,
fatta mediante barche che risalivano il corso del Po, a monte di
Ostiglia, in provincia di Mantova, con il loro carico di alveari.
Gli abitanti di Ostiglia traevano dall’apicoltura il principale
prodotto per la loro sussistenza e, nel paese di Melara, avevano il
centro di fabbricazione della cera e del miele. Gli ostigliesi
riuscivano a produrre un’elevata quantità di miele che, in parte,
vendevano anche nelle zone limitrofe.
L’allevamento delle api occupava una grande quantità di persone, di
ogni età: i lavori iniziavano in primavera con la preparazione, la
pulizia ed il riordino degli alveari che venivano poi ricoperti con
tettoie di vimini o di paglia per ripararli dagli acquazzoni estivi;
i boschi e le praterie offrivano poi l’ambiente più invitante per
l’attività delle api. Se, però, a causa di piogge o per inverni
troppo prolungati o, ancora, a causa di inondazioni del Po, veniva a
mancare il nutrimento per le api, gli abitanti di Ostiglia ponevano
gli alveari sulle barche, di notte, e salivano o scendevano lungo il
fiume secondo le notizie che avevano di luoghi non colpiti da
inondazioni o da fenomeni meteorologici avversi. Quindi i Romani
adoperavano arnie che si prestavano ad ingrandirsi ed a
restringersi, per non turbare il lavoro degli insetti. In epoca
romana si sapeva già che l’ape non danneggia la frutta, si facevano
sciami artificiali e si tagliavano le ali alle regine quando era il
caso di impedire la sciamatura, ma, altresì, si era convinti della
generazione spontanea degli sciami da carogne bovine.
Virgilio, apicoltore e poeta, nelle “Egloghe”, nell’Eneide e nelle
“Georgiche”, delle quali il IV libro è interamente dedicato
all’allevamento delle api, parlò diffusamente dell’apicoltura,
esprimendo la sua personale preferenza per il miele di timo. Nel 30
a.C., al tempo dell’imperatore Augusto, l’apicoltura era nella sua
età dell’oro, le api venivano raccolte in tronchi cavi d’albero, in
casse di legno spalmate di creta e sterco bovino ed in Italia erano
rare le case di campagna ed i poderi rustici che fossero privi di
api. Si sa che i Romani usarono diversi tipi di arnie, costruite con
materiali come il vimini, la terracotta, la ferula, il sughero, il
legno e la corteccia. Esse erano di dimensioni diverse, con
sportello posteriore e diaframma, a favo e soffitta mobili, a spazio
riducibile e c’erano persino arnie da osservazione, come Plinio
cita, nelle sue opere, quando descrive un’arnia di pietra (lapis
specularis) che facilmente si sfaldava in lamine sottilissime e
trasparenti. Tra i sistemi di lavoro più in uso presso i Romani,
ricordiamo la pratica della castratura (asportazione della parte
superiore dei favi subito dopo la fioritura primaverile) ed il non
uso dell’apicidio. Questo implica che essi conoscevano
l’utilizzazione del favo grande, del favo mobile e della sciamatura
artificiale, principi basilari dell’apicoltura razionale.
Un
miglioramento delle tecniche apistiche si ebbe quando si decise di
ampliare l'arnia sovrapponendogli un melario dove le api potevano
immagazzinare miele, e l'apicoltore poteva raccoglierlo senza
distruggere il nido di covata. L'invenzione dell'arnia a telai
mobili ha segnato l'evoluzione dell'apicoltura. I primi ad
introdurre delle stecche di legno negli alveari furono i greci, i
quali scoprirono che capovolgendo i panieri di paglia con
l'imboccatura più larga rivolta verso l'alto, mettendo dei listelli
nella parte superiore, le api costruivano favi non attaccati alle
pareti e quindi estraibili.
Con la scomparsa delle grandi civiltà antiche e la caduta
dell'impero romano, l'apicoltura praticata dai ricchi proprietari
cessò e nel medioevo l'attività apistica fu praticata dai monaci nei
conventi per ricavare il prezioso miele e la cera vergine che
serviva per il culto. Dopo l'anno mille, col sorgere dei liberi
Comuni e delle fiorenti Repubbliche, l'apicoltura prese nuova vita,
divenne una attività redditizia ed apprezzata. Con la scoperta del
Nuovo Mondo si diffuse l'utilizzo dello zucchero come dolcificante
con conseguente minor utilizzo del miele. l'apicoltura ebbe così un
periodo di involuzione ritornando allo stato villico gestita
perlopiù da contadini che si limitavano a raccogliere il miele dopo
aver eliminato le api. Un certo numero di scritti sulle api, frutto
di civiltà mediterranee, sono andati persi, ma molti sono stati
tradotti e preservati dagli Arabi che vissero in Spagna durante il
periodo dell'invasione musulmana nel 711 fino alla loro espulsione
nel 1492. Particolarmente importanti alcuni scrittori che vissero
tra il 900 ed il 1100, i quali preservarono le conoscenze sulle api
ed aggiunsero nuovi saperi. Avicenna (nato in
Uzbekhistan nel 980 e morto in Persia nel 1037) sapeva che i "re"
vengono allevati in celle particolarmente grandi. Ibn-al-Awam
(Siviglia) dedusse che le api più piccole all'interno dell'alveare
sono femmine e che hanno il pungiglione. Le api più grandi sono
maschi e non partecipano alla produzione di miele. I "re" sono
grandi circa due volte le femmine. Egli era consapevole inoltre che
per l'apicoltore era più vantaggioso avere solo pochi "re" per ogni
alveare. In epoca medioevale, solo qualche illuminato comune o
qualche repubblica
indipendente continuò a promuovere l’apicoltura, mentre altrove si
giunse al soffocamento degli alveari e le api sopravvissero solo nei
boschi. Sappiamo anche che, in questo periodo storico, gli
apicoltori adottarono un abito protettivo, da indossare quando
lavoravano attorno agli alveari
Sotto il regno di Carlo Magno, non solo ogni proprietario di campi
doveva possedere almeno un alveare, ma lo stesso re ne voleva un
gran numero nei suoi poderi e premiava i più diligenti apicoltori:
infatti nei giardini della sua stessa reggia venivano allevate le
api. Nella biblioteca di Norimberga si trovano tuttora le “patenti”
ed i privilegi concessi agli apicoltori dagli imperatori di Germania
intorno all’anno 1000.
Nel 1513, Gabriele Alonso de Herrera, in Spagna, pubblicò una
compilazione di scritti sull'agricoltura, opera di autori
precedenti, e il V° volume di quest'opera è dedicato alle api. Esso
riporta quanto scritto dagli autori greci e romani. Nel 1568
in Slesia, Nickel Jacob pubblicò un libro sull'apicoltura che
includeva due nuove e significative osservazioni: una colonia con
covata o con uova di operaia giovane (anche aggiunta) può allevare
un nuovo Weisel (nome maschile per indicare il leader della
colonia). Quando un alveare viene posto in un luogo nuovo, le api
imparano la loro localizzazione facendo dei voli nei dintorni. Fino
al 1500, il calendario dell’apicoltore rimase praticamente
invariato: all’inizio dell’estate egli procedeva alla cattura degli
sciami e li ”inarniava”; a fine estate uccideva le api nella maggior
parte dei suoi alveari, tagliava ed asportava i favi e separava il
miele dalla cera filtrandolo; in autunno, se necessario, alimentava
i restanti alveari destinati a superare l’inverno; abitualmente, per
uccidere le api, bruciava dello zolfo.
Però erano ancora diffuse, a quei tempi, tante informazioni
inesatte: si pensava che il re dell’alveare fosse maschio, non si
sapeva quale fosse il sesso delle api operaie e dei fuchi e né si
era a conoscenza che la regina si accoppiasse con gli stessi fuchi;
altresì si ignorava che le api secernono la cera con cui
costruiscono i favi e che le loro visite ai fiori hanno un legame
con la formazione dei semi e dei frutti.
Con il Rinascimento, si registrò in tutta l’Europa una ripresa degli
studi sulla biologia dell’ape e l’invenzione del microscopio diede
un contributo fondamentale allo sviluppo delle conoscenze in questo
campo, consentendone descrizioni morfologiche ed anatomiche sempre
più precise e favorendo una sempre più corretta interpretazione
della funzione dei vari organi dell’ape.
Seguirono importanti scoperte in Italia, con l'invenzione del
microscopio dovuta a Galileo (1564 - 1642); ma già prima di allora,
Giovanni Rucellai (1475 - 1525) scrisse un poema, Le api - non
pubblicato fino al 1539 - che descriveva ciò che egli aveva visto
della morfologia esterna della api, utilizzando uno specchio
concavo, compresa la proboscide e le ali. Rucellai parlava inoltre
del leader come del re e mai come della regina.
Galileo fu membro di una società scientifica di Roma, piccola ma
attiva, l'Accademia dei Lincei. Nel 1624 egli diede un microscopio
al principe Federico Cesi, fondatore dell'accademia, che lo usò per
disegnare le api su una stampa da presentare al Papa; la api furono
i primi insetti ad essere dipinti come visti al microscopio. Il
principe Cesi, inoltre, cominciò a pubblicare i suoi grandi disegni
per produrre un testo sulle api, Apiarium, che era catalogato con un
indice che poteva essere consultato.
Iniziarono in questo periodo gli
studi che portarono alla scoperta dei fatti fondamentali della vita
delle api e che rivoluzionò l'apicoltura. L’ape regina fu descritta
per la prima volta come femmina ovificatrice da Luis Mendez de
Torres , in una memoria pubblicata in Spagna nel 1586. In seguito,
in Inghilterra, Charles Butler dimostrò, nella sua “Feminine
Monarchie” (1609), che i fuchi erano maschi e Richard Remnant, nel
suo “Discourse or Histoire of Bees” (1637), mise in luce che le api
operaie erano femmine, proprio dall’osservazione dei loro organi
riproduttivi. In Germania, nel 1568, una pubblicazione di Nickel
Jacob rendeva noto il fatto che le api potevano allevare una regina
dalle uova o da giovanissime larve. Nel 1771, Anton Janscha, un
semplice contadino della Carniola, indefesso apicoltore nominato
docente in questo ramo a Vienna, osservò la fecondazione della
regina e divulgò, così, la conoscenza degli eventi fondamentali
relativi all’accoppiamento della regina con il fuco. Il celebre
naturalista olandese Jan Swammerdam riconobbe il sesso della regina,
dell’operaia e del fuco, però, a causa della sua morte, il suo libro
“Storia delle api” fu pubblicato, postumo, dopo molto tempo e dopo
che altri ebbero già portato a compimento i loro studi.
Nel 1744, H.C. Hornbostel pubblicò in Germania una descrizione della
produzione della cera da parte delle api, mentre in Inghilterra, nel
1750, Arthur Dobbs scoprì che il polline che le api raccolgono è il
“seme maschile” del fiore, che feconda l’ovulo. Egli osservò pure
che le api, in ogni singolo volo, raccolgono polline da un unico
tipo di fiore ed avanzò l’ipotesi che, in caso diverso, si sarebbe
avuta una disastrosa fecondazione incrociata. Nel 1771 si
descrisse per la prima volta l'accoppiamento della regina con i
fuchi; nel 1744 Hornbostel, descrisse correttamente la produzione
della cera delle api. In questo periodo si ebbero numerosi tentativi
per mettere a punto un metodo che consentisse di estrarre il miele
senza uccidere le api. I primi tentativi di far costruire alle api
favi agganciati a listelli e che non si attaccassero alle pareti
per via della Propolis diedero risultati parziali, di difficile realizzazione e non
definitivi. Ed a proposito della Propolis nel 1770, i liutai della
famosa scuola cremonese scoprirono che la Propolis era preziosa, se
mescolata alle vernici, per conferire risonanza alla cassa armonica
degli strumenti ad arco. La funzione delle api nella fecondazione
dei fiori venne definita con chiarezza da C.K. Sprengel, nel 1793,
un anno dopo la pubblicazione delle osservazioni di François Huber,
l’apicoltore e naturalista svizzero cieco, che gettò le basi della
moderna scienza apistica, dopo aver esaminato la funzione, nel
giardino dell’Osservatorio Reale di Francia, a Parigi, delle arnie
da osservazione a favo singolo. Huber si avvalse, prima, degli
”occhi” del suo fedele domestico Francesco Burnens e, poi, di quelli
della moglie, scoprendo, tra l’altro, che il polline aveva una
funzione predominante nella vita delle larve e che la Propolis
proveniva dalle gemme delle piante. Huber inventò l’arnia a libro,
che consisteva in un certo numero di telai, uniti fra loro a
cerniera ad un estremo, come le pagine di un libro, entro i quali le
api costruivano i loro favi. Essa permise la mobilità del favo, pur
non essendo un’arnia da produzione: infatti era un’arnia da studio e
da osservazione che permise di fare interessantissimi studi e
scoperte sulla vita delle api. Ma il mobilismo dei favi non è nato
con Huber o Langstroth, ma esisteva già, anche se spetta agli ultimi
due l’invidiabile merito di aver studiato, rileggendo le opere degli
scrittori georgici latini, i migliori sistemi di apicoltura e di
averne trovato la pratica applicazione perfezionandoli con speciali
accorgimenti che, in precedenza, nessuno aveva saputo escogitare.
E’, dunque, ancora l’arnia greco-romana a listelli e quadri quella
che tra il 1790 ed il 1800 ispirò l’ideatore dell’arnia Baloira di
Rivoli, dell’arnia Ducale o Canavesana d’Agliè e di Venarìa Reale,
di quella Gonzaghese di Volta Mantovana e di quella ancor più
interessante a cassetta e a foglio cereo liscio, pure di Mantova,
che fra il 1830 ed il 1840 ispirò quella di Sesto (Bolzano) ed,
infine, quella a listelli di Gorizia.
Nel 1845 il parroco Giovanni Dzierzon pubblicò il suo sistema di
apicoltura razionale a favo mobile e descrisse la partenogenesi
delle api, consentendo di chiarire, in modo definitivo, l’origine e
la funzione di regina, fuchi ed operaie. In un primo tempo, egli usò
un’arnia aperta sia superiormente che inferiormente ed adoperò
superficialmente dei listelli portafavi come nell’arnia greca e di
Della Rocca, ma, siccome difficilmente poteva strarre i favi, ideò
l’apertura posteriore rendendo fisso il soffitto ed il fondo e
facendo poggiare i listelli portafavo su due regoli.
Lorenzo Lorraine Langstroth, un americano di Filadelfia, fu il
fondatore dell’apicoltura americana. Quando egli ideò il telaio
mobile, era a conoscenza sia degli studi dell’Huber che del lavoro
di Bevan. Egli si servì dell’arnia fornita di portafavi e di un
basso melario, descritta da Bevan, e la migliorò, approfondendo i
solchi su cui i portafavi appoggiavano, lasciando circa 9,5 mm fra
soffitta e portafavi.
La seconda metà dell'ottocento è tutto un pullulare di invenzioni, e
determinano in pochi anni un'autentica rivoluzione, che porta
all'arnia moderna. Langstroth inventò il telaio mobile con listelli
laterali staccati e, per la prima volta, ne scrisse il 30 ottobre
1851. Langstroth trovò che così si facilitava la rimozione
dell’assicella superiore, ed intuì che si sarebbero potute evitare
costruzioni supplementari di cera, rendendo di conseguenza i favi
estraibili, adottando lo stesso “spazio d’ape”, distanza tra i favi
fra loro e fra i favi e le pareti, esistente, tra favi contigui, nei
nidi naturali. La sua riflessione fu giusta e le api, infatti,
“rispettarono” lo spazio tra le pareti dell’arnia ed i telaini, non
costruendo nello spazio libero, con il risultato che i favi si
dimostrarono realmente mobili. L’alveare a telaino mobile entrò
nell’uso comune, negli Stati Uniti, già nel 1861, venne, poi,
introdotto in Inghilterra nel 1862 e successivamente, grazie agli
scritti di Charles Dadant, che apparvero sui giornali francesi ed
italiani, si diffuse anche nel resto dell’Europa. L’arnia di
Langstroth diventava, così, quella di “tipo americano”.
All'arnia era possibile aggiungere diversi corpi, per l'allevamento
della covata o per l'immagazzinamento del miele. A
differenza dell'arnia di antica concezione, la nuova struttura è
costituita da un modulo base contenente favi mobili e un sistema
modulare di melari, contenenti favetti, sempre mobili, per il
periodo di raccolto.
Nasce la moderna apicoltura. Nel frattempo in Europa il barone
tedesco Berlepsch, modificando un’arnia a listelli di Dzierzon,
ideò, all’insaputa dell’invenzione di Langstroth, il telaino chiuso
che lasciava, come quello di Langstroth, uno spazio tra
l’intelaiatura e la parete, ma questa volta di 7 mm. L’arnia di
Berlepsch diventava l’arnia “di tipo tedesco” o a soffitta fissa.
Quella che per prima venne introdotta e divulgata in Italia fu
l’arnia del tipo tedesco, che gli apicoltori sottoposero a numerosi
adattamenti e migliorie: prese, così, origine una nutrita serie di
modelli, tra i quali prevalsero ben presto le arnie “Sartori”, la
più diffusa, che era costituita da una cassa verticale nelle quali
venivano appoggiati 3 ordini sovrapposti di 10 telaini ciascuno, 2
per il la covata e 1 per il melario. L'arnia era apribile
posteriormente per mezzo di uno sportello mobile su piccoli cardini,
sulla parete anteriore dell'arnia si trovavano 3 porticine per
l'uscita delle api: le prime 2 erano disposte, l'una accanto
all'altra, appena sopra al fondo, la terza si trovava in
corrispondenza della base del melario. L'arnia “Fumagalli”,
più piccola, era caratterizzata dal fatto di avere i telai del nido
uguali a quelli del melario. Notevole fu l'opera di divulgazione
dell’“Associazione Centrale di Incoraggiamento per l’Apicoltura in
Italia”, fondata a Milano nel 1867 e che, nel 1868, diede vita al
primo periodico apistico “L’apicoltore”, dalle cui pagine, ma anche
da diverse altre provvide iniziative, vennero attivamente promossi i
principi teorici e pratici dell’apicoltura moderna. Le arnie
“Sartori” e Fumagalli” costituirono le basi dell’apicoltura
razionale italiana fino agli inizi del 1900, quando cedettero
gradualmente il passo alle arnie di tipo americano. Il risveglio
apistico italiano risentì, quindi, dell’influenza tedesca dal 1860
al 1885 e di quella americana dal 1885 al 1927. Ma le invenzioni non
si limitano alle arnie: l’uso dei telaini mobili portò direttamente
all’invenzione dei fogli cerei, nel 1857, da parte dell’ebanista
Johannes Mehring, il quale riuscì a fare dei fogli cerei faccettati,
incidendo i fondi delle cellette su tavolette di legno. Ciò faceva
risparmiare cera e dava la certezza che le api avrebbero costruito,
nei telaini, favi regolari. L’invenzione fu poi perfezionata e
furono prodotte pratiche faccettatrici di rame. L’americano Root
fece incidere i fondi su cilindri, ottenendo la faccettatrice a
cilindri, Nel 1865 lo smielatore centrifugo, che permise di estrarre
il miele dal telaino senza distruggerlo fu
inventato dal maggiore E Kruschka, apicoltore dilettante austriaco.
Il perfezionamento dell’escludiregina da parte dell’abate francese
Collin permise all’apicoltore di tenere la regina, e quindi la
covata, fuori dal melario. Per mezzo dell’apiscampo, costruito da E.
C. Porter, negli Stati Uniti, nel 1891, divenne possibile liberare
il melario dalle api, prima di togliere i telaini carichi di miele.
Altra utilissima, quanto semplice, invenzione fu quella della
sceratrice solare fatta, nel 1881, da Giuseppe Leandri di San
Giovanni in Croce di Piadena.
Una grande opera fu svolta in quel periodo, in Italia, per la
difesa, la tutela e l’incremento dell’apicoltura, la quale prendeva,
intanto, un nuovo indirizzo grazie alla diffusione di norme più
razionali per l’allevamento delle api. Nacquero così delle riviste
specializzate, come “Le api e i fiori”, pubblicata nel 1883 a Jesi
(Ancona), “L’apicoltura razionale risorta”, nel 1885 a Campi
Bisenzio.
Bibliografia
Note
e fonti di ricerca interessanti
|
(°) L'organizzazione sociale delle
api: l'alveare come immagine dell'ordine e come
rappresentazione della societas romana, di
Katia Verdiani |
Il
primo autore che ci parla dell’ape come animale sociale
è Aristotele, il quale, nell’Historia animalium, 488 a,
annovera le api tra gli animali sociali che vivono in un
gruppo organizzato, in cui tutti i membri si adoperano
per un fine comune, proprio come fanno l’uomo, le vespe,
le formiche e le gru. Inoltre, le api si
contraddistinguono anche per il fatto di sottomettersi
ad un capo. Le caratteristiche dell’ape, tuttavia, non
si esauriscono con la sua definizione di animale
“altamente sociale”, dal momento che le sue connotazioni
culturali sono molteplici. Per ricordarne brevemente
alcune, l’ape è l’ animale puro per eccellenza, che
rifugge da tutto ciò che è putrido, non è soggetto ai
piaceri di Venere, è in continuo contatto sia con gli
uomini sia con gli dei, perché ha in sé il germe del
divino, è dotato di poteri divinatori, ed è capace di
designare con la propria presenza anche l’esito di
eventi futuri o la fortuna di grandi uomini. Inoltre,
fatto che a noi interessa più da vicino, nelle modalità
di organizzazione della vita della comunità, le api
dimostrano una notevole capacità di scelta, che le
contraddistinguono e pongono su un livello superiore
rispetto a tutti gli altri animali, talvolta addirittura
anche all’uomo, in quanto, differentemente dagli uomini,
questi insetti conoscono soltanto l’utile comune ed il
bene dell’intero gruppo ed agiscono in funzione di
questo. Plinio il Vecchio, nel libro della Naturalis
Historia dedicato per gran parte alla descrizione delle
caratteristiche degli insetti, afferma proprio che alle
api spettano il primato ed una speciale ammirazione, dal
momento che queste, uniche tra gli altri insetti, sono
genitis hominum causa, create apposta per l’uomo,
meraviglia incomparabile prodotta dalla natura, alla cui
razionalità, specialmente se paragonata alle piccole
dimensioni, non potrebbe essere paragonata quella di
nessun uomo, proprio perché non conoscono altro se non
l’interesse comune, nihil novere nisi commune (XI,11-12).
L’alto livello di socialità delle api e la loro
vicinanza alla comunità umana si riscontra prima di
tutto nella scelta del luogo in cui la comunità andrà ad
abitare, che, nelle fonti, obbedisce a criteri molto
simili. Secondo Varrone (III, 16, 12), infatti,
l’alveare deve essere posto nei pressi della fattoria,
in un punto in cui non c’è eco, rivolto verso oriente
nei mesi invernali, in una zona dal clima temperato con
intorno abbondante pascolo ed acqua pura. In
particolare, la presenza di acqua limpida, non
stagnante, rappresenta una costante nelle fonti che
parlano del luogo adatto per porre un’arnia. Questo
accade perché l’acqua pulita costituisce uno degli
elementi più importanti nell’alimentazione delle api,
dunque l’alveare deve essere situato vicino ad un
ruscello di acqua corrente o ad un laghetto di acqua
sorgiva (ibid. III, 16, 27). Anche in Virgilio, Georgica
IV, vv. 18-24, la presenza di acqua, in particolare di
acqua limpida, rappresenta un parametro fondamentale,
con l’aggiunta del dettaglio che è meglio se il corso o
la fonte di acqua si trovano vicino ad un luogo
ombreggiato, dove le giovani api si possano ristorare.
Inoltre, ai vv. 48-50, Virgilio ribadisce l’importanza
di tenere lontano l’alveare dall’ acqua putrida.
Columella, nel De re rustica, intitola un intero
paragrafo De sedibus apibus eligendis (9,5), ed è ancora
più preciso sia di Varrone che di Virgilio nella
descrizione del luogo in cui deve essere posto
l’alveare. Questo non deve essere né troppo caldo, né
troppo freddo, ma, soprattutto, lontano da ogni tipo di
odore nauseabondo, come quello delle latrine e dei
letamai, oltre che, ovviamente, da quello del pantano
delle paludi. La relazione tra i luoghi paludosi e le
api permette di stabilire un rapporto piuttosto stretto
tra insediamento ideale per gli alveari ed insediamento
ideale per la comunità umana, che, come è stato
dimostrato in maniera molto convincente in uno studio di
Federico Borca sui vv. 48-50 della IV Georgica,
obbediscono ad analoghi precetti di ordine igienico (cfr.
F. Borca, Altae neu crede paludi: api e paludi in Verg.,Georgiche,
4.485, in “Sileno”, 1995, 21 (1-2), pp. 161–165)
Infatti, proprio come, nella scelta del luogo in cui
porre l’alveare Varrone e Virgilio ritengono
indispensabile la presenza di acqua, ma ribadiscono più
volte che deve trattarsi di acqua pura e non di acqua
stagnante o paludosa, suggerimenti analoghi si trovano
negli autori antichi a proposito della scelta del luogo
ideale in cui porre una fattoria. Lo stesso Varrone
afferma più volte nel libro I del De re rustica che
nell’atto di costruire un villa bisogna porre attenzione
alla scelta di un luogo salubre, possibilmente vicino ad
un corso d’acqua, ma non di una palude, perché in essa
si sviluppano animali piccoli ed invisibili che
penetrano nell’organismo e provocano malattie pericolose
per gli occhi e per le vie respiratorie. Come osserva
Borca, “il biotipo palustre, con la sua melma e le
esalazioni da essa emanate, è infatti percepito dagli
antichi come particolarmente sfavorevole sia all’apicultura,
sia all’insediamento umano”, perché “la melma dei
pantani non rientra nel modello di ordine previsto dal
codice culturale: essa è al contrario percepita come
confusa e caotica e perciò anche sporca e impura”. Le
api, in particolare, animali culturalmente connotati
come puri per eccellenza, di cui Varrone, III, 16, 6 ci
dice che secuntur omnia pura, hanno come acerrimi
nemici, oltre a vespe e calabroni proprio gli abitanti
palustri, cioè le zanzare e le rane.
Gli uomini e le api abitano gli stessi luoghi perché
fanno parte di una comunità ugualmente organizzata e
civilizzata: l’ape, lontana dalla natura selvaggia ed
incolta è “metafora”dell’uomo civile. Questo avviene
anche per le forme di organizzazione sociale adottate
sia dalla comunità degli uomini che da quella delle api.
L’alveare, infatti, costituisce spesso nelle fonti
antiche l’explanans della respublica, così come accade
frequentemente che la respublica rappresenti il filtro
metaforico attraverso il quale viene descritto
l’alveare. L’immagine dell’alveare come archetipo e
simbolo dell’organizzazione sociale è un’immagine che
circola diffusamente nella cultura greca e romana,
attraversa il medioevo e sopravvive, confermata e
rinnovata, nell’età moderna e contemporanea (Per
l’analisi dell’alveare come immagine dello stato e per
la fortuna del tema in età tardo antica, medievale e
moderna, si rimanda alla chiarissima analisi di P.
Costa, Le api e l’alveare. Immagini dell’ordine tra
“antico” e “moderno”, in Sbriccoli, M., et. Al., Ordo
Iuris, Milano 2003). Già Platone, fa ricorso all’exemplum
della società delle api in ambito politico, sia in
Politico, 301 d-e sia nella Repubblica, 520 b, citando
il re dell’alveare come modello ideale a cui ispirarsi
per perseguire l’interesse dei cittadini e dello stato.
In Cicerone, De Officiis, I, 157, le api sono descritte,
proprio come gli uomini, come animali sociali per
natura, che, perciò, sono spinte a costruire i favi
proprio in virtù di questa loro naturale tendenza a
vivere in comunità. L’alveare rappresenta l’immagine di
una res publica compatta e coerente, che può dunque
assurgere a livello di paradigma ed emblema di ogni
altra collettività che, idealmente, per funzionare bene,
dovrebbe funzionare proprio come l’alveare. Varrone, De
re rustica, III, 16, 4, afferma che le api sono animali
abituati a vivere in società, “apes non sunt solitaria
natura, ut aquilae, sed ut homines” ma il dato più
interessante in assoluto non è tanto la loro capacità di
vivere in gruppo, quanto la qualità della loro
socializzazione. Anche altri animali vivono in gruppo,
ma le api si distinguono perché riescono a condividere
una precisa attività lavorativa e produttiva, si
dividono tra loro i compiti in maniera razionale, così
da riuscire ad aedificare ed a cibaria condere. Inoltre,
le api, proprio come gli esseri umani, hanno civitates,
a capo delle quali si trova un re ed all’interno delle
quali ciascuno svolge un compito ben definito. Virgilio,
Georgiche, IV, 201, chiama le api “parvos Quirites”,
appellativo che apparenta in maniera inequivocabile la
società delle api non con una città qualsiasi, ma
direttamente con Roma. Plinio, Naturalis Historia, XI,
11, scende ancor più nei dettagli della loro
organizzazione interna e sostiene che, addirittura, le
api: rem publicam habent, consilia privatim quaeque, at
duces gregatim et, quod maxime mirum sit, mores habent
praeter cetera […]
La rigorosa disciplina che vige all’interno
dell’alveare, per certi aspetti sembra più simile a
quella di un esercito che a quella di una civitas, ed il
re dell’alveare, per alcuni tratti, assomiglia più ad un
generale che ad un sovrano. Plinio, infatti, (XI,20 sg.),
ci descrive l’alveare come un accampamento, in cui la
giornata e le attività sono scandite da ritmi molto
simili a quelli di un esercito: durante il giorno una
guardia sorveglia le porte, interdiu statio ad portas
more castrorum, al mattino una di loro le sveglia con un
ronzio che è simile ad uno squillo di tromba, quies in
matutinum, donec una excitet gemino aut triplici bombo,
ut bucino aliquo. Alla sera, poi, un’ ape volando compie
il giro dell’alveare ed emettendo lo stesso ronzio che
al mattino le aveva svegliate, ordina a tutte di
riposare. Anche questo avviene secondo la disciplina
militare ed a questo cenno tutte fanno silenzio (XI,
26). Anche lo sciame di api operaie che lavora fuori
dall’alveare è chiamato agmen da Plinio (11, 20), così
come le api incaricate di andare in cerca di pascoli
nuovi e freschi, quando quelli nelle vicinanze
dell’alveare sono esauriti, prendono il nome di
speculatores, termine che è tipico del linguaggio
militare ed indica propriamente la spia. In Varrone III,
16, 9, l’assimilazione dell’alveare all’esercito è
totale, omnes ut in exercitu vivunt. In Plutarco, Vita
di Licurgo 25, 5, addirittura, la vita delle api
nell’alveare rappresenta il modello adottato da Licurgo
a Sparta e questo particolare si carica di grande
significato se si considera la forte militarizzazione
della società spartana. L’alveare, se analizzato da
questo punto di vista, rappresenta una società in cui
tutti i membri perseguono un utile comune, ma anche una
società in cui non è data la possibilità di una scelta
autonoma. Basti pensare che, nonostante la loro immensa
devozione nei confronti del sovrano, devozione che,
addirittura, Virgilio arriva a paragonare a quella dei
popoli orientali le api riescono a rimanere unite
soltanto finché alla loro testa c’è un re ( Georgiche,
IV, vv.210-215), forse proprio per la loro naturale
incapacità di libero arbitrio. D’altra parte, anche se
l’ape-re è oggetto di un rispetto e di una venerazione
anche maggiori di quelli attribuiti ai sovrani
orientali, non esercita sull’alveare una tirannide che
provoca l’insoddisfazione dello sciame e che, quindi,
potrebbe portarlo a ribellarsi. La regalità esercitata
dal re dell’alveare diviene perciò il paradigma di una
“provvida regalità” proprio perché il sovrano
costituisce l’emblema dell’ordine e dell’unità
dell’alveare e solo la sua presenza rende possibile la
spontanea convergenza delle azioni e dei sentimenti dei
singoli membri che costituiscono la civitas di cui lui è
a capo. A conferma di ciò, un passo di Plinio, XI, 17,
dimostra che l’obbedienza delle api, per quanto
sorprendente, non è motivata dal timore della sanzione,
dal momento che il re non ricorre alla forza e non ha
bisogno di imporsi o di fare ricorso alla violenza,
anche perché non usa il pungiglione, del quale, per
altro, gli antichi discutono se sia fornito o meno.
Seneca nel De Clementia, I, 19, 2-3, guarda alle api
proprio in questa prospettiva, nel senso che queste per
lui costituiscono il modello di un ordine naturale e
spontaneo, entro il quale l’autorità trova fissati i
suoi limiti. L’alveare dimostra che la carica del re
“non è un costrutto convenzionale, ma è un portato della
natura stessa”. La natura ha creato la figura del re,
che gode di alcuni privilegi, come il fatto di essere
alloggiato nel luogo più interno dell’alveare e di
essere esente dal lavoro. La superiorità, inoltre, è
visibile anche dall’aspetto fisico e la sua figura
garantisce il mantenimento dell’ordine nell’alveare, che
si disperde alla sua morte. Tuttavia, se la natura da
una parte ha voluto che il re si distinguesse per le
dimensioni e lo splendore del proprio corpo, dall’altra
anche e soprattutto che, essendo il solo privo di
pungiglione, si segnalasse per il carattere pacifico e
per l’incapacità di nuocere. La conclusione di Seneca, è
che il re dell’alveare, in virtù di queste sue
caratteristiche, dovrebbe costituire il modello di
riferimento per tutti i grandi re, proprio perché la
natura di solito offre grandi esempi nelle cose più
piccole.
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