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I dati più antichi conosciuti sono quelli scoperti da Hernandez Pacheco nel 1921.Apiterapia Risale a 7000 anni prima di Cristo, periodo mesolitico, la più antica raffigurazione dell’uomo in atto di carpire il miele all’ape: si tratta di diverse pitture rupestri rinvenute nelle Grotte del Ragno (Cuevas de la Araña) di Bicorp, presso Valencia in Spagna. Per comprendere il senso di questo tipo di raffigurazioni dobbiamo tener conto del fatto che nei dirupi di questo territorio le api facevano il nido nelle crepe delle rocce; gli sciami abbondavano nel grande Paredon de la Rebolia. Nelle immediate vicinanze della grotta in cui sono state ritrovate le pitture, e anche nel periodo in cui sono state scoperte, era pratica corrente tra i contadini di approfittare delle fredde giornate invernali per calarsi con funi e scale sulle pareti di roccia per prendere i favi.
Passeranno secoli finché non saranno scoperti, nel complesso delle fonti storiche, riferimenti ad api, miele e cera, ma è assai significativo un fatto: sui più antichi documenti scritti conosciuti, le tavolette d’argilla della civiltà mesopotamica, che datano a partire dal 2700 a.C., vi sono passi che descrivono il miele come medicina.
Nel corso del tempo il miele è stato accettato come uno degli alimenti più preziosi accessibili all’uomo. Secoli fa, quando i popoli primitivi vivevano a stretto contatto con la natura, erano obbligati a procurarsi il cibo andandosene in giro a cercarlo. Man mano che facevano la loro comparsa le più antiche civiltà, il miele era rappresentato e lodato negli scritti di diversi autori. È stato menzionato nella Bibbia, nel Corano e nel Talmud, ed era assai apprezzato da Romani, Greci ed Egizi. In effetti, in ciascun territorio abitato dalle api esiste la stessa credenza legata ai poteri miracolosi del miele, utilizzato sia come alimento che come farmaco. Gli antichi greci lo chiamavano il “Nettare degli Dei”; autori e luminari di numerose civiltà ritenevano che tale nettare fosse un alimento meraviglioso, depositario di benefiche qualità medicinali.
I più antichi documenti riguardanti l’utilizzo della cera provengono dalle antichissime civiltà sviluppatesi nell’area compresa tra il Tigri e l’Eufrate, dove nel 5000 a.C. circa si parlava già la lingua sumerica, e nel 4000 a.C. ha fatto la sua comparsa la scrittura su tavolette d’argilla. In Irak, a Nippur, sono stati scoperti due frammenti di ceramica la cui datazione stimata è di circa 2100-2000 a.C.. Considerati i più antichi documenti che fanno riferimento al miele e alla cera scritti in lingua sumerica, contengono un testo che riporta una serie di medicine e unguenti a base di tali prodotti. Nell’antico Egitto le rappresentazioni di soggetti apistici sono numerosissime e l’ape era presente nei cartigli che raffiguravano i nomi dei faraoni. Già nel 3000 a.C. erano in uso arnie, di argilla o altro materiale, Memorie scritte, risalenti al 3000 a.C., ci indicano come nell’antico Egitto l’apicoltura nomade fluviale, lungo il corso del Nilo, fosse una pratica comune: dato che la stagione dell’Alto Egitto era più precoce che nel Basso Egitto, gli apicoltori spostavano le loro api lungo il fiume, seguendo la progressione delle fioriture. E’ di questo periodo, inoltre, la rappresentazione di scene raffiguranti l’estrazione del miele da arnie villiche e la sua conservazione in vasi di forma sferica. Come simbolo grafico, l’ape venne usata fin dall’età arcaica per designare la regalità del Basso Egitto: riferimenti alle api si trovano sul sarcofago Menca (3600 aC). Dalla prima dinastia faraonica (3200-2780) fino al periodo romano, i titoli dei re dell’Egitto erano sempre associati al simbolo dell’ape: infatti il “cartiglio” contenente il nome del re era preceduto da un’ape, emblema di sovranità e di comando. L’ape, stilizzata, era rappresentata in diverse tombe e sulle statue, essendo il simbolo stesso del re del Basso Egitto nel 3200 a.C. Dal 3100 a.C., il profilo dell'ape operaia venne utilizzato nei geroglifici come simbolo topografico dell'Antico Egitto. I primi disegni ritrovati mostrano un insetto con quattro zampe e due ali mentre la testa, il torace e le bande sull'addome sono rimarcate, così come le antenne. Sono state trovate raffigurazioni di alveari risalenti al 2400 a.c. Di quel periodo sono quattro le rappresentazioni con tale soggetto; una di queste mostra come si usasse l'affumicatore per tranquillizzare le api. Inoltre, poiché i favi estratti dagli alveari sono di forma tondeggiante, l'apicoltore doveva sapere come posizionare la famiglia d'api in modo da ottenere favi perpendicolari all'arnia cilindrica, messa orizzontale.
Dalla Mesopotamia all’antica Cina, alle civiltà Greca e Romana, le testimonianze del rapporto uomo-ape si moltiplicano a dismisura.  Anche se non vi sono scritture sulle api e l'apicoltura, le rappresentazioni grafiche suggeriscono che la tecnica apistica raggiunse livelli più alti che in ogni altro posto. Ancora oggi l'apicoltura tradizionale nell'Alto Egitto è rimasta simile a quanto descritto ed un metodo similare d'allevamento è in uso, ai giorni nostri, anche sulle coste del Nord Africa.
Sempre in Egitto, in seguito allo studio di alcune piramidi, si è potuto constatare che gli Egizi conservavano la frutta nel miele, e per l’imbalsamazione dei corpi, insieme ad altre sostanze, erano utilizzati lo stesso miele e la cera.
Tra il 2050 ed il 1950 a.C., in Assiria, durante e dopo il periodo di Sargon I, i corpi dei morti erano trattati con cera e seppelliti nel miele. Nel 2000 a.C. Mosè, nel “Pentateuco”, fece cenno del miele portato in Egitto dagli Ebrei, i quali allevavano le api secondo apposite leggi che regolavano l’apicoltura.
Anche la Cina possiede scritti che si riferiscono al miele, risalenti al 1300 a.C..
Nel X secolo a.C., il re babilonese Salomone parlò del miele e dei favi in molti suoi scritti.
I Greci forniscono numerosissime notizie sul miele; l’arte di “allevare api” venne perfezionata nella Magna Grecia: i Greci trasportavano nei loro giardini dei nidi di api per assicurarsi l’abbondanza della raccolta dei frutti, forse intuendo già la grandissima importanza dei pronubi per la fecondazione incrociata. Omero, nel 1194 a.C., nelle sue rapsodie sulla guerra di Troia, parlò di api e di miele; Esiodo, nel 780 a.C. parlò di regina, di fuchi e di operaie. Nel VII secolo a.C., il legislatore ateniese Solone, con una legge, stabilì che nessuna arnia nuova dovesse essere posta ad una distanza minore di trecento metri da quelle già esistenti. Pericle, nel 461 a.C., riferì che la sola Attica, in Grecia, aveva oltre
20.000 alveari che costituivano la ricchezza dei loro proprietari, poiché questa era proprio la regione che vantava il miele di timo più pregiato del mondo antico, quello dell’Imetto; il filosofo e matematico greco Pitagora esortava i propri seguaci a cibarsi, praticamente di pane e miele, garantendo loro lunga vita. In tale epoca si riteneva che ogni colonia contenesse un'ape più grande, che veniva considerata il leader o il re e che si pensava fosse di sesso maschile (come, d'altronde, la maggior parte dei leader). I testi greci elogiavano quest'ape più grande per la sua abilità di leadership e per la sua saggezza fuori dal comune. Alcuni testi enumeravano e celebravano le caratteristiche femminili, altre quelle maschili delle api. In tutti i casi le api erano considerate come sottomesse al loro leader, da cui non volevano e non potevano separarsi. Le descrizioni ritrovate, in ogni caso, contengono una interessante quantità d'affermazioni importanti: si spiegano le caratteristiche del comportamento d'Apis mellifera abbastanza correttamente, anche se mancavano sulle api alcune basilari cognizioni biologiche e fisiologiche. Nel Periodo Ellenistico (323 - 31 a.c.) era diffuso e prevalente poi il concetto di "bugonia" (nato da un bue). Tale idea, presumibilmente, traeva la sua origine dalla cultura e conoscenze della civiltà egizia. Per produrre uno sciame d'api, un bue doveva essere ucciso senza romperne la pelle e il corpo dell'animale doveva essere avvolto con delle erbe e chiuso in una speciale costruzione per nove giorni, trascorsi i quali sarebbe apparso uno sciame d'api. La mitologia greca racconta che Giove è stato nutrito dalle api del Monte Ida, che hanno prodotto miele a questo scopo. In quelle regioni, la prima moneta al mondo di cui si abbia notizia, recava impressa un’ape come simbolo di solerzia. Questa moneta apparteneva alla civiltà di Efeso, del 4° secolo a.C.. 
I Romani tennero il miele nella massima considerazione. La richiesta del miele eccedeva la produzione tanto che, da sempre, importarono il miele e altri prodotti delle api (in particolare la cera, utilizzata moltissimo come isolante, per l'illuminazione, per la costruzione delle tavolette su cui scrivere, per impermeabilizzare e cosi via) da Creta, Cipro, Spagna e Malta, il cui nome originale, Meilat, pare che significhi appunto “terra del miele”; utilizzavano molto miele, unico dolcificante allora conosciuto, nell'alimentazione e per la preparazione del vino di miele (il famosissimo idromiele), della birra di miele, come conservante alimentare, per la preparazione di numerosissime e famosissime salse agrodolci, per i dolci. Lo scavo archeologico di un impianto completo di alveari, presso una fattoria (costruita tra il IV ed il III secolo a.C., ma ancora in funzione in età romana e bizantina) a Vari, nell’Attica, ha portato alla luce arnie di terracotta costituiteda due elementi fondamentali ed uno aggiuntivo: un vaso a pan di zucchero, alto 53,5 cm e dal diametro all’imboccatura di 36 cm, con un coperchio circolare munito di cinque fori per il passaggio dello spago e di una piccola apertura a forma di semiluna per l’entrata ed uscita delle api. Plinio il Vecchio, stimato enciclopedista romano, si occupa ampiamente delle api e dei loro prodotti nella sua opera “Storia naturale”. Come altri luminari dell’epoca, presenta numerosi e dettagliati utilizzi della cera, il che dimostra che si conosceva il metodo di estrazione, purificazione e perfino di sbiancamento della cera d’api. Lo sbiancamento si praticava soprattutto a Cartagine, dove il prodotto ottenuto assunse il nome di “cera punica”.
L'arnia di paglia intrecciata era largamente diffusa al tempo di Carlo Magno. L'attenzione di Carlo Magno alla cura delle terre a lui sottoposte giunse fino a stabilire l'obbligo che in ogni podere lavorasse anche un apicoltore, con il compito di badare alle api e preparare miele e idromiele.
In India il miele è apprezzato, profondamente rispettato e capito nella sua essenza. Le scritture indù, sono ricchissime di citazioni sul miele e di paragoni in cui esso viene utilizzato come simbolo di bontà, bellezza e virtù. II miele era apprezzato particolarmente anche nell'antichissima medicina Ayurveda, che risale a più di tremila anni fa, ma è ancora utilizzata in India e anche in Occidente. La medicina ayurvedica indica il miele come purificante, afrodisiaco, dissetante, vermifugo , antitossico, regolatore, refrigerante, stomachico, cosmetico, tonico, leggermente ipnotico, cicatrizzante; ma la profondità con cui questo tema viene trattato fa sì che a ogni specifico stato morboso o disfunzione corrisponda un particolare tipo di miele.
L'apicoltura razionale ebbe inizio quando l'uomo per avere in abbondanza il miele decise di allevare le api entro contenitori. Nel corso dei secoli c'è stata una lenta evoluzione delle tecniche apistiche: dalle arnie costituite da un solo contenitore a favi fissi, in seguito sono state utilizzate arnie a favi fissi ma con due corpi e infine arnie a telai mobili tuttora in uso.
Quasi certamente il prototipo di arnia primitiva è stato un tronco cavo, l'uomo si è limitato a tagliarlo e chiuderlo alle due estremità realizzando cosi un'arnia. Il più antico studio sulle api di cui si ha conoscenza fu effettuato da Aristotele, il grande filosofo, che lo utilizzò per scrivere il trattato "Storia naturale degli animali”.   Altre fonti letterarie (°) da cui si possano ricavare precise indicazioni sulle caratteristiche tecniche delle arnie sono quelle latine, quali il "De re rustica" di Columella (4-70 d.C.), la "Res rustica" di Varrone e la "Naturalis Historia" di Plinio il Vecchio: si parla di arnie costruite con la corteccia di sughero, quelle ottenute con l'intreccio di ferule o di vimini di salice, quelle ricavate nei tronchi d'albero cavi o fabbricate con assi di legno di quercia, faggio, pino o fico, costituite da tavole a forma di parallelepipedo poste orizzontalmente con il fondo posteriore mobile. Varrone ricorda come le arnie di vimini di forma rotonda vengano spalmate sia all'interno che all'esterno di letame bovino misto a calce o cenere, per seccarlo e far perdere il cattivo odore.  Varrone parlò anche delle tecniche apistiche e, dalle sue opere, deduciamo che l’apicoltura era una pratica commerciale già consolidata in molti paesi del bacino mediterraneo. Egli, d’accordo con Columella, sosteneva che le peggiori arnie erano quelle di terracotta, le quali risentivano moltissimo del freddo durante l’inverno e del caldo in estate. Varrone, inoltre, parlando delle arnie, poneva l’attenzione sui “chiuditoi a tergo, mobili, per tirare fuori i favi”. Plinio e Columella riferirono anche della grande importanza attribuita all’esercizio dell’apicoltura nomade, fatta mediante barche che risalivano il corso del Po, a monte di Ostiglia, in provincia di Mantova, con il loro carico di alveari. Gli abitanti di Ostiglia traevano dall’apicoltura il principale prodotto per la loro sussistenza e, nel paese di Melara, avevano il centro di fabbricazione della cera e del miele. Gli ostigliesi riuscivano a produrre un’elevata quantità di miele che, in parte, vendevano anche nelle zone limitrofe.
L’allevamento delle api occupava una grande quantità di persone, di ogni età: i lavori iniziavano in primavera con la preparazione, la pulizia ed il riordino degli alveari che venivano poi ricoperti con tettoie di vimini o di paglia per ripararli dagli acquazzoni estivi; i boschi e le praterie offrivano poi l’ambiente più invitante per l’attività delle api. Se, però, a causa di piogge o per inverni troppo prolungati o, ancora, a causa di inondazioni del Po, veniva a mancare il nutrimento per le api, gli abitanti di Ostiglia ponevano gli alveari sulle barche, di notte, e salivano o scendevano lungo il fiume secondo le notizie che avevano di luoghi non colpiti da inondazioni o da fenomeni meteorologici avversi. Quindi i Romani adoperavano arnie che si prestavano ad ingrandirsi ed a restringersi, per non turbare il lavoro degli insetti. In epoca romana si sapeva già che l’ape non danneggia la frutta, si facevano sciami artificiali e si tagliavano le ali alle regine quando era il caso di impedire la sciamatura, ma, altresì, si era convinti della generazione spontanea degli sciami da carogne bovine.  Virgilio, apicoltore e poeta, nelle “Egloghe”, nell’Eneide e nelle “Georgiche”, delle quali il IV libro è interamente dedicato all’allevamento delle api, parlò diffusamente dell’apicoltura, esprimendo la sua personale preferenza per il miele di timo. Nel 30 a.C., al tempo dell’imperatore Augusto, l’apicoltura era nella sua età dell’oro, le api venivano raccolte in tronchi cavi d’albero, in casse di legno spalmate di creta e sterco bovino ed in Italia erano rare le case di campagna ed i poderi rustici che fossero privi di api. Si sa che i Romani usarono diversi tipi di arnie, costruite con materiali come il vimini, la terracotta, la ferula, il sughero, il legno e la corteccia. Esse erano di dimensioni diverse, con sportello posteriore e diaframma, a favo e soffitta mobili, a spazio riducibile e c’erano persino arnie da osservazione, come Plinio cita, nelle sue opere, quando descrive un’arnia di pietra (lapis specularis) che facilmente si sfaldava in lamine sottilissime e trasparenti. Tra i sistemi di lavoro più in uso presso i Romani, ricordiamo la pratica della castratura (asportazione della parte superiore dei favi subito dopo la fioritura primaverile) ed il non uso dell’apicidio. Questo implica che essi conoscevano l’utilizzazione del favo grande, del favo mobile e della sciamatura artificiale, principi basilari dell’apicoltura razionale.
Un miglioramento delle tecniche apistiche si ebbe quando si decise di ampliare l'arnia sovrapponendogli un melario dove le api potevano immagazzinare miele, e l'apicoltore poteva raccoglierlo senza distruggere il nido di covata. L'invenzione dell'arnia a telai mobili ha segnato l'evoluzione dell'apicoltura. I primi ad introdurre delle stecche di legno negli alveari furono i greci, i quali scoprirono che capovolgendo i panieri di paglia con l'imboccatura più larga rivolta verso l'alto, mettendo dei listelli nella parte superiore, le api costruivano favi non attaccati alle pareti e quindi estraibili.
Con la scomparsa delle grandi civiltà antiche e la caduta dell'impero romano, l'apicoltura praticata dai ricchi proprietari cessò e nel medioevo l'attività apistica fu praticata dai monaci nei conventi per ricavare il prezioso miele e la cera vergine che serviva per il culto. Dopo l'anno mille, col sorgere dei liberi Comuni e delle fiorenti Repubbliche, l'apicoltura prese nuova vita, divenne una attività redditizia ed apprezzata. Con la scoperta del Nuovo Mondo si diffuse l'utilizzo dello zucchero come dolcificante con conseguente minor utilizzo del miele. l'apicoltura ebbe così un periodo di involuzione ritornando allo stato villico gestita perlopiù da contadini che si limitavano a raccogliere il miele dopo aver eliminato le api. Un certo numero di scritti sulle api, frutto di civiltà mediterranee, sono andati persi, ma molti sono stati tradotti e preservati dagli Arabi che vissero in Spagna durante il periodo dell'invasione musulmana nel 711 fino alla loro espulsione nel 1492. Particolarmente importanti alcuni scrittori che vissero tra il 900 ed il 1100, i quali preservarono le conoscenze sulle api ed aggiunsero nuovi saperi. Avicenna (nato in Uzbekhistan nel 980 e morto in Persia nel 1037) sapeva che i "re" vengono allevati in celle particolarmente grandi. Ibn-al-Awam (Siviglia) dedusse che le api più piccole all'interno dell'alveare sono femmine e che hanno il pungiglione. Le api più grandi sono maschi e non partecipano alla produzione di miele. I "re" sono grandi circa due volte le femmine. Egli era consapevole inoltre che per l'apicoltore era più vantaggioso avere solo pochi "re" per ogni alveare. In epoca medioevale, solo qualche illuminato comune o qualche repubblica
indipendente continuò a promuovere l’apicoltura, mentre altrove si giunse al soffocamento degli alveari e le api sopravvissero solo nei boschi. Sappiamo anche che, in questo periodo storico, gli apicoltori adottarono un abito protettivo, da indossare quando lavoravano attorno agli alveari
Sotto il regno di Carlo Magno, non solo ogni proprietario di campi doveva possedere almeno un alveare, ma lo stesso re ne voleva un gran numero nei suoi poderi e premiava i più diligenti apicoltori: infatti nei giardini della sua stessa reggia venivano allevate le api. Nella biblioteca di Norimberga si trovano tuttora le “patenti” ed i privilegi concessi agli apicoltori dagli imperatori di Germania intorno all’anno 1000.
Nel 1513, Gabriele Alonso de Herrera, in Spagna, pubblicò una compilazione di scritti sull'agricoltura, opera di autori precedenti, e il V° volume di quest'opera è dedicato alle api. Esso riporta quanto scritto dagli autori greci e romani.  Nel 1568 in Slesia, Nickel Jacob pubblicò un libro sull'apicoltura che includeva due nuove e significative osservazioni: una colonia con covata o con uova di operaia giovane (anche aggiunta) può allevare un nuovo Weisel (nome maschile per indicare il leader della colonia). Quando un alveare viene posto in un luogo nuovo, le api imparano la loro localizzazione facendo dei voli nei dintorni. Fino al 1500, il calendario dell’apicoltore rimase praticamente invariato: all’inizio dell’estate egli procedeva alla cattura degli sciami e li ”inarniava”; a fine estate uccideva le api nella maggior parte dei suoi alveari, tagliava ed asportava i favi e separava il miele dalla cera filtrandolo; in autunno, se necessario, alimentava i restanti alveari destinati a superare l’inverno; abitualmente, per uccidere le api, bruciava dello zolfo.
Però erano ancora diffuse, a quei tempi, tante informazioni inesatte: si pensava che il re dell’alveare fosse maschio, non si sapeva quale fosse il sesso delle api operaie e dei fuchi e né si era a conoscenza che la regina si accoppiasse con gli stessi fuchi; altresì si ignorava che le api secernono la cera con cui costruiscono i favi e che le loro visite ai fiori hanno un legame con la formazione dei semi e dei frutti.
Con il Rinascimento, si registrò in tutta l’Europa una ripresa degli studi sulla biologia dell’ape e l’invenzione del microscopio diede un contributo fondamentale allo sviluppo delle conoscenze in questo campo, consentendone descrizioni morfologiche ed anatomiche sempre più precise e favorendo una sempre più corretta interpretazione della funzione dei vari organi dell’ape.
Seguirono importanti scoperte in Italia, con l'invenzione del microscopio dovuta a Galileo (1564 - 1642); ma già prima di allora, Giovanni Rucellai (1475 - 1525) scrisse un poema, Le api - non pubblicato fino al 1539 - che descriveva ciò che egli aveva visto della morfologia esterna della api, utilizzando uno specchio concavo, compresa la proboscide e le ali. Rucellai parlava inoltre del leader come del re e mai come della regina.
Galileo fu membro di una società scientifica di Roma, piccola ma attiva, l'Accademia dei Lincei. Nel 1624 egli diede un microscopio al principe Federico Cesi, fondatore dell'accademia, che lo usò per disegnare le api su una stampa da presentare al Papa; la api furono i primi insetti ad essere dipinti come visti al microscopio. Il principe Cesi, inoltre, cominciò a pubblicare i suoi grandi disegni per produrre un testo sulle api, Apiarium, che era catalogato con un indice che poteva essere consultato.
Iniziarono in questo periodo gli studi che portarono alla scoperta dei fatti fondamentali della vita delle api e che rivoluzionò l'apicoltura. L’ape regina fu descritta per la prima volta come femmina ovificatrice da Luis Mendez de Torres , in una memoria pubblicata in Spagna nel 1586. In seguito, in Inghilterra, Charles Butler dimostrò, nella sua “Feminine Monarchie” (1609), che i fuchi erano maschi e Richard Remnant, nel suo “Discourse or Histoire of Bees” (1637), mise in luce che le api operaie erano femmine, proprio dall’osservazione dei loro organi riproduttivi. In Germania, nel 1568, una pubblicazione di Nickel Jacob rendeva noto il fatto che le api potevano allevare una regina dalle uova o da giovanissime larve. Nel 1771, Anton Janscha, un semplice contadino della Carniola, indefesso apicoltore nominato docente in questo ramo a Vienna, osservò la fecondazione della regina e divulgò, così, la conoscenza degli eventi fondamentali relativi all’accoppiamento della regina con il fuco. Il celebre naturalista olandese Jan Swammerdam riconobbe il sesso della regina, dell’operaia e del fuco, però, a causa della sua morte, il suo libro “Storia delle api” fu pubblicato, postumo, dopo molto tempo e dopo che altri ebbero già portato a compimento i loro studi.
Nel 1744, H.C. Hornbostel pubblicò in Germania una descrizione della produzione della cera da parte delle api, mentre in Inghilterra, nel 1750, Arthur Dobbs scoprì che il polline che le api raccolgono è il “seme maschile” del fiore, che feconda l’ovulo. Egli osservò pure che le api, in ogni singolo volo, raccolgono polline da un unico tipo di fiore ed avanzò l’ipotesi che, in caso diverso, si sarebbe avuta una disastrosa fecondazione incrociata.  Nel 1771 si descrisse per la prima volta l'accoppiamento della regina con i fuchi; nel 1744 Hornbostel, descrisse correttamente la produzione della cera delle api. In questo periodo si ebbero numerosi tentativi per mettere a punto un metodo che consentisse di estrarre il miele senza uccidere le api. I primi tentativi di far costruire alle api favi agganciati a listelli e che non si attaccassero alle pareti per via della Propolis diedero risultati parziali, di difficile realizzazione e non definitivi. Ed a proposito della Propolis nel 1770, i liutai della famosa scuola cremonese scoprirono che la Propolis era preziosa, se mescolata alle vernici, per conferire risonanza alla cassa armonica degli strumenti ad arco. La funzione delle api nella fecondazione dei fiori venne definita con chiarezza da C.K. Sprengel, nel 1793, un anno dopo la pubblicazione delle osservazioni di François Huber, l’apicoltore e naturalista svizzero cieco, che gettò le basi della moderna scienza apistica, dopo aver esaminato la funzione, nel giardino dell’Osservatorio Reale di Francia, a Parigi, delle arnie da osservazione a favo singolo. Huber si avvalse, prima, degli ”occhi” del suo fedele domestico Francesco Burnens e, poi, di quelli della moglie, scoprendo, tra l’altro, che il polline aveva una funzione predominante nella vita delle larve e che la Propolis proveniva dalle gemme delle piante. Huber inventò l’arnia a libro, che consisteva in un certo numero di telai, uniti fra loro a cerniera ad un estremo, come le pagine di un libro, entro i quali le api costruivano i loro favi. Essa permise la mobilità del favo, pur non essendo un’arnia da produzione: infatti era un’arnia da studio e da osservazione che permise di fare interessantissimi studi e scoperte sulla vita delle api. Ma il mobilismo dei favi non è nato con Huber o Langstroth, ma esisteva già, anche se spetta agli ultimi due l’invidiabile merito di aver studiato, rileggendo le opere degli scrittori georgici latini, i migliori sistemi di apicoltura e di averne trovato la pratica applicazione perfezionandoli con speciali accorgimenti che, in precedenza, nessuno aveva saputo escogitare.
E’, dunque, ancora l’arnia greco-romana a listelli e quadri quella che tra il 1790 ed il 1800 ispirò l’ideatore dell’arnia Baloira di Rivoli, dell’arnia Ducale o Canavesana d’Agliè e di Venarìa Reale, di quella Gonzaghese di Volta Mantovana e di quella ancor più interessante a cassetta e a foglio cereo liscio, pure di Mantova, che fra il 1830 ed il 1840 ispirò quella di Sesto (Bolzano) ed, infine, quella a listelli di Gorizia.
Nel 1845 il parroco Giovanni Dzierzon pubblicò il suo sistema di apicoltura razionale a favo mobile e descrisse la partenogenesi delle api, consentendo di chiarire, in modo definitivo, l’origine e la funzione di regina, fuchi ed operaie. In un primo tempo, egli usò un’arnia aperta sia superiormente che inferiormente ed adoperò superficialmente dei listelli portafavi come nell’arnia greca e di Della Rocca, ma, siccome difficilmente poteva strarre i favi, ideò l’apertura posteriore rendendo fisso il soffitto ed il fondo e facendo poggiare i listelli portafavo su due regoli.
Lorenzo Lorraine Langstroth, un americano di Filadelfia, fu il fondatore dell’apicoltura americana. Quando egli ideò il telaio mobile, era a conoscenza sia degli studi dell’Huber che del lavoro di Bevan. Egli si servì dell’arnia fornita di portafavi e di un basso melario, descritta da Bevan, e la migliorò, approfondendo i solchi su cui i portafavi appoggiavano, lasciando circa 9,5 mm fra soffitta e portafavi.
La seconda metà dell'ottocento è tutto un pullulare di invenzioni, e determinano in pochi anni un'autentica rivoluzione, che porta all'arnia moderna. Langstroth inventò il telaio mobile con listelli laterali staccati e, per la prima volta, ne scrisse il 30 ottobre 1851. Langstroth trovò che così si facilitava la rimozione dell’assicella superiore, ed intuì che si sarebbero potute evitare costruzioni supplementari di cera, rendendo di conseguenza i favi estraibili, adottando lo stesso “spazio d’ape”, distanza tra i favi fra loro e fra i favi e le pareti, esistente, tra favi contigui, nei nidi naturali. La sua riflessione fu giusta e le api, infatti, “rispettarono” lo spazio tra le pareti dell’arnia ed i telaini, non costruendo nello spazio libero, con il risultato che i favi si dimostrarono realmente mobili. L’alveare a telaino mobile entrò nell’uso comune, negli Stati Uniti, già nel 1861, venne, poi, introdotto in Inghilterra nel 1862 e successivamente, grazie agli scritti di Charles Dadant, che apparvero sui giornali francesi ed italiani, si diffuse anche nel resto dell’Europa.  L’arnia di Langstroth diventava, così, quella di “tipo americano”.  All'arnia era possibile aggiungere diversi corpi, per l'allevamento della covata o per l'immagazzinamento del miele.  A differenza dell'arnia di antica concezione, la nuova struttura è costituita da un modulo base contenente favi mobili e un sistema modulare di melari, contenenti favetti, sempre mobili, per il periodo di raccolto.  Nasce la moderna apicoltura. Nel frattempo in Europa il barone tedesco Berlepsch, modificando un’arnia a listelli di Dzierzon, ideò, all’insaputa dell’invenzione di Langstroth, il telaino chiuso che lasciava, come quello di Langstroth, uno spazio tra l’intelaiatura e la parete, ma questa volta di 7 mm. L’arnia di Berlepsch diventava l’arnia “di tipo tedesco” o a soffitta fissa. Quella che per prima venne introdotta e divulgata in Italia fu l’arnia del tipo tedesco, che gli apicoltori sottoposero a numerosi adattamenti e migliorie: prese, così, origine una nutrita serie di modelli, tra i quali prevalsero ben presto le arnie “Sartori”, la più diffusa, che era costituita da una cassa verticale nelle quali venivano appoggiati 3 ordini sovrapposti di 10 telaini ciascuno, 2 per il la covata e 1 per il melario. L'arnia era apribile posteriormente per mezzo di uno sportello mobile su piccoli cardini, sulla parete anteriore dell'arnia si trovavano 3 porticine per l'uscita delle api: le prime 2 erano disposte, l'una accanto all'altra, appena sopra al fondo, la terza si trovava in corrispondenza della base del melario. L'arnia  “Fumagalli”, più piccola, era caratterizzata dal fatto di avere i telai del nido uguali a quelli del melario. Notevole fu l'opera di divulgazione  dell’“Associazione Centrale di Incoraggiamento per l’Apicoltura in Italia”, fondata a Milano nel 1867 e che, nel 1868, diede vita al primo periodico apistico “L’apicoltore”, dalle cui pagine, ma anche da diverse altre provvide iniziative, vennero attivamente promossi i principi teorici e pratici dell’apicoltura moderna.  Le arnie “Sartori” e Fumagalli” costituirono le basi dell’apicoltura razionale italiana fino agli inizi del 1900, quando cedettero gradualmente il passo alle arnie di tipo americano. Il risveglio apistico italiano risentì, quindi, dell’influenza tedesca dal 1860 al 1885 e di quella americana dal 1885 al 1927. Ma le invenzioni non si limitano alle arnie: l’uso dei telaini mobili portò direttamente all’invenzione dei fogli cerei, nel 1857, da parte dell’ebanista Johannes Mehring, il quale riuscì a fare dei fogli cerei faccettati, incidendo i fondi delle cellette su tavolette di legno. Ciò faceva risparmiare cera e dava la certezza che le api avrebbero costruito, nei telaini, favi regolari. L’invenzione fu poi perfezionata e furono prodotte pratiche faccettatrici di rame. L’americano Root fece incidere i fondi su cilindri, ottenendo la faccettatrice a cilindri, Nel 1865 lo smielatore centrifugo, che permise di estrarre il miele dal telaino senza distruggerlo fu inventato dal maggiore E Kruschka, apicoltore dilettante austriaco.  Il perfezionamento dell’escludiregina da parte dell’abate francese Collin permise all’apicoltore di tenere la regina, e quindi la covata, fuori dal melario. Per mezzo dell’apiscampo, costruito da E. C. Porter, negli Stati Uniti, nel 1891, divenne possibile liberare il melario dalle api, prima di togliere i telaini carichi di miele. Altra utilissima, quanto semplice, invenzione fu quella della sceratrice solare fatta, nel 1881, da Giuseppe Leandri di San Giovanni in Croce di Piadena.
Una grande opera fu svolta in quel periodo, in Italia, per la difesa, la tutela e l’incremento dell’apicoltura, la quale prendeva, intanto, un nuovo indirizzo grazie alla diffusione di norme più razionali per l’allevamento delle api. Nacquero così delle riviste specializzate, come “Le api e i fiori”, pubblicata nel 1883 a Jesi (Ancona), “L’apicoltura razionale risorta”, nel 1885 a Campi Bisenzio.


Bibliografia


Note e fonti di ricerca interessanti
 

(°) L'organizzazione sociale delle api: l'alveare come immagine dell'ordine e come rappresentazione della societas romana, di Katia Verdiani

Il primo autore che ci parla dell’ape come animale sociale è Aristotele, il quale, nell’Historia animalium, 488 a, annovera le api tra gli animali sociali che vivono in un gruppo organizzato, in cui tutti i membri si adoperano per un fine comune, proprio come fanno l’uomo, le vespe, le formiche e le gru. Inoltre, le api si contraddistinguono anche per il fatto di sottomettersi ad un capo. Le caratteristiche dell’ape, tuttavia, non si esauriscono con la sua definizione di animale “altamente sociale”, dal momento che le sue connotazioni culturali sono molteplici. Per ricordarne brevemente alcune, l’ape è l’ animale puro per eccellenza, che rifugge da tutto ciò che è putrido, non è soggetto ai piaceri di Venere, è in continuo contatto sia con gli uomini sia con gli dei, perché ha in sé il germe del divino, è dotato di poteri divinatori, ed è capace di designare con la propria presenza anche l’esito di eventi futuri o la fortuna di grandi uomini. Inoltre, fatto che a noi interessa più da vicino, nelle modalità di organizzazione della vita della comunità, le api dimostrano una notevole capacità di scelta, che le contraddistinguono e pongono su un livello superiore rispetto a tutti gli altri animali, talvolta addirittura anche all’uomo, in quanto, differentemente dagli uomini, questi insetti conoscono soltanto l’utile comune ed il bene dell’intero gruppo ed agiscono in funzione di questo. Plinio il Vecchio, nel libro della Naturalis Historia dedicato per gran parte alla descrizione delle caratteristiche degli insetti, afferma proprio che alle api spettano il primato ed una speciale ammirazione, dal momento che queste, uniche tra gli altri insetti, sono genitis hominum causa, create apposta per l’uomo, meraviglia incomparabile prodotta dalla natura, alla cui razionalità, specialmente se paragonata alle piccole dimensioni, non potrebbe essere paragonata quella di nessun uomo, proprio perché non conoscono altro se non l’interesse comune, nihil novere nisi commune (XI,11-12). L’alto livello di socialità delle api e la loro vicinanza alla comunità umana si riscontra prima di tutto nella scelta del luogo in cui la comunità andrà ad abitare, che, nelle fonti, obbedisce a criteri molto simili. Secondo Varrone (III, 16, 12), infatti, l’alveare deve essere posto nei pressi della fattoria, in un punto in cui non c’è eco, rivolto verso oriente nei mesi invernali, in una zona dal clima temperato con intorno abbondante pascolo ed acqua pura. In particolare, la presenza di acqua limpida, non stagnante, rappresenta una costante nelle fonti che parlano del luogo adatto per porre un’arnia. Questo accade perché l’acqua pulita costituisce uno degli elementi più importanti nell’alimentazione delle api, dunque l’alveare deve essere situato vicino ad un ruscello di acqua corrente o ad un laghetto di acqua sorgiva (ibid. III, 16, 27). Anche in Virgilio, Georgica IV, vv. 18-24, la presenza di acqua, in particolare di acqua limpida, rappresenta un parametro fondamentale, con l’aggiunta del dettaglio che è meglio se il corso o la fonte di acqua si trovano vicino ad un luogo ombreggiato, dove le giovani api si possano ristorare. Inoltre, ai vv. 48-50, Virgilio ribadisce l’importanza di tenere lontano l’alveare dall’ acqua putrida. Columella, nel De re rustica, intitola un intero paragrafo De sedibus apibus eligendis (9,5), ed è ancora più preciso sia di Varrone che di Virgilio nella descrizione del luogo in cui deve essere posto l’alveare. Questo non deve essere né troppo caldo, né troppo freddo, ma, soprattutto, lontano da ogni tipo di odore nauseabondo, come quello delle latrine e dei letamai, oltre che, ovviamente, da quello del pantano delle paludi. La relazione tra i luoghi paludosi e le api permette di stabilire un rapporto piuttosto stretto tra insediamento ideale per gli alveari ed insediamento ideale per la comunità umana, che, come è stato dimostrato in maniera molto convincente in uno studio di Federico Borca sui vv. 48-50 della IV Georgica, obbediscono ad analoghi precetti di ordine igienico (cfr. F. Borca, Altae neu crede paludi: api e paludi in Verg.,Georgiche, 4.485, in “Sileno”, 1995, 21 (1-2), pp. 161–165) Infatti, proprio come, nella scelta del luogo in cui porre l’alveare Varrone e Virgilio ritengono indispensabile la presenza di acqua, ma ribadiscono più volte che deve trattarsi di acqua pura e non di acqua stagnante o paludosa, suggerimenti analoghi si trovano negli autori antichi a proposito della scelta del luogo ideale in cui porre una fattoria. Lo stesso Varrone afferma più volte nel libro I del De re rustica che nell’atto di costruire un villa bisogna porre attenzione alla scelta di un luogo salubre, possibilmente vicino ad un corso d’acqua, ma non di una palude, perché in essa si sviluppano animali piccoli ed invisibili che penetrano nell’organismo e provocano malattie pericolose per gli occhi e per le vie respiratorie. Come osserva Borca, “il biotipo palustre, con la sua melma e le esalazioni da essa emanate, è infatti percepito dagli antichi come particolarmente sfavorevole sia all’apicultura, sia all’insediamento umano”, perché “la melma dei pantani non rientra nel modello di ordine previsto dal codice culturale: essa è al contrario percepita come confusa e caotica e perciò anche sporca e impura”. Le api, in particolare, animali culturalmente connotati come puri per eccellenza, di cui Varrone, III, 16, 6 ci dice che secuntur omnia pura, hanno come acerrimi nemici, oltre a vespe e calabroni proprio gli abitanti palustri, cioè le zanzare e le rane.
Gli uomini e le api abitano gli stessi luoghi perché fanno parte di una comunità ugualmente organizzata e civilizzata: l’ape, lontana dalla natura selvaggia ed incolta è “metafora”dell’uomo civile. Questo avviene anche per le forme di organizzazione sociale adottate sia dalla comunità degli uomini che da quella delle api. L’alveare, infatti, costituisce spesso nelle fonti antiche l’explanans della respublica, così come accade frequentemente che la respublica rappresenti il filtro metaforico attraverso il quale viene descritto l’alveare. L’immagine dell’alveare come archetipo e simbolo dell’organizzazione sociale è un’immagine che circola diffusamente nella cultura greca e romana, attraversa il medioevo e sopravvive, confermata e rinnovata, nell’età moderna e contemporanea (Per l’analisi dell’alveare come immagine dello stato e per la fortuna del tema in età tardo antica, medievale e moderna, si rimanda alla chiarissima analisi di P. Costa, Le api e l’alveare. Immagini dell’ordine tra “antico” e “moderno”, in Sbriccoli, M., et. Al., Ordo Iuris, Milano 2003). Già Platone, fa ricorso all’exemplum della società delle api in ambito politico, sia in Politico, 301 d-e sia nella Repubblica, 520 b, citando il re dell’alveare come modello ideale a cui ispirarsi per perseguire l’interesse dei cittadini e dello stato. In Cicerone, De Officiis, I, 157, le api sono descritte, proprio come gli uomini, come animali sociali per natura, che, perciò, sono spinte a costruire i favi proprio in virtù di questa loro naturale tendenza a vivere in comunità. L’alveare rappresenta l’immagine di una res publica compatta e coerente, che può dunque assurgere a livello di paradigma ed emblema di ogni altra collettività che, idealmente, per funzionare bene, dovrebbe funzionare proprio come l’alveare. Varrone, De re rustica, III, 16, 4, afferma che le api sono animali abituati a vivere in società, “apes non sunt solitaria natura, ut aquilae, sed ut homines” ma il dato più interessante in assoluto non è tanto la loro capacità di vivere in gruppo, quanto la qualità della loro socializzazione. Anche altri animali vivono in gruppo, ma le api si distinguono perché riescono a condividere una precisa attività lavorativa e produttiva, si dividono tra loro i compiti in maniera razionale, così da riuscire ad aedificare ed a cibaria condere. Inoltre, le api, proprio come gli esseri umani, hanno civitates, a capo delle quali si trova un re ed all’interno delle quali ciascuno svolge un compito ben definito. Virgilio, Georgiche, IV, 201, chiama le api “parvos Quirites”, appellativo che apparenta in maniera inequivocabile la società delle api non con una città qualsiasi, ma direttamente con Roma. Plinio, Naturalis Historia, XI, 11, scende ancor più nei dettagli della loro organizzazione interna e sostiene che, addirittura, le api: rem publicam habent, consilia privatim quaeque, at duces gregatim et, quod maxime mirum sit, mores habent praeter cetera […]
La rigorosa disciplina che vige all’interno dell’alveare, per certi aspetti sembra più simile a quella di un esercito che a quella di una civitas, ed il re dell’alveare, per alcuni tratti, assomiglia più ad un generale che ad un sovrano. Plinio, infatti, (XI,20 sg.), ci descrive l’alveare come un accampamento, in cui la giornata e le attività sono scandite da ritmi molto simili a quelli di un esercito: durante il giorno una guardia sorveglia le porte, interdiu statio ad portas more castrorum, al mattino una di loro le sveglia con un ronzio che è simile ad uno squillo di tromba, quies in matutinum, donec una excitet gemino aut triplici bombo, ut bucino aliquo. Alla sera, poi, un’ ape volando compie il giro dell’alveare ed emettendo lo stesso ronzio che al mattino le aveva svegliate, ordina a tutte di riposare. Anche questo avviene secondo la disciplina militare ed a questo cenno tutte fanno silenzio (XI, 26). Anche lo sciame di api operaie che lavora fuori dall’alveare è chiamato agmen da Plinio (11, 20), così come le api incaricate di andare in cerca di pascoli nuovi e freschi, quando quelli nelle vicinanze dell’alveare sono esauriti, prendono il nome di speculatores, termine che è tipico del linguaggio militare ed indica propriamente la spia. In Varrone III, 16, 9, l’assimilazione dell’alveare all’esercito è totale, omnes ut in exercitu vivunt. In Plutarco, Vita di Licurgo 25, 5, addirittura, la vita delle api nell’alveare rappresenta il modello adottato da Licurgo a Sparta e questo particolare si carica di grande significato se si considera la forte militarizzazione della società spartana. L’alveare, se analizzato da questo punto di vista, rappresenta una società in cui tutti i membri perseguono un utile comune, ma anche una società in cui non è data la possibilità di una scelta autonoma. Basti pensare che, nonostante la loro immensa devozione nei confronti del sovrano, devozione che, addirittura, Virgilio arriva a paragonare a quella dei popoli orientali le api riescono a rimanere unite soltanto finché alla loro testa c’è un re ( Georgiche, IV, vv.210-215), forse proprio per la loro naturale incapacità di libero arbitrio. D’altra parte, anche se l’ape-re è oggetto di un rispetto e di una venerazione anche maggiori di quelli attribuiti ai sovrani orientali, non esercita sull’alveare una tirannide che provoca l’insoddisfazione dello sciame e che, quindi, potrebbe portarlo a ribellarsi. La regalità esercitata dal re dell’alveare diviene perciò il paradigma di una “provvida regalità” proprio perché il sovrano costituisce l’emblema dell’ordine e dell’unità dell’alveare e solo la sua presenza rende possibile la spontanea convergenza delle azioni e dei sentimenti dei singoli membri che costituiscono la civitas di cui lui è a capo. A conferma di ciò, un passo di Plinio, XI, 17, dimostra che l’obbedienza delle api, per quanto sorprendente, non è motivata dal timore della sanzione, dal momento che il re non ricorre alla forza e non ha bisogno di imporsi o di fare ricorso alla violenza, anche perché non usa il pungiglione, del quale, per altro, gli antichi discutono se sia fornito o meno.
Seneca nel De Clementia, I, 19, 2-3, guarda alle api proprio in questa prospettiva, nel senso che queste per lui costituiscono il modello di un ordine naturale e spontaneo, entro il quale l’autorità trova fissati i suoi limiti. L’alveare dimostra che la carica del re “non è un costrutto convenzionale, ma è un portato della natura stessa”. La natura ha creato la figura del re, che gode di alcuni privilegi, come il fatto di essere alloggiato nel luogo più interno dell’alveare e di essere esente dal lavoro. La superiorità, inoltre, è visibile anche dall’aspetto fisico e la sua figura garantisce il mantenimento dell’ordine nell’alveare, che si disperde alla sua morte. Tuttavia, se la natura da una parte ha voluto che il re si distinguesse per le dimensioni e lo splendore del proprio corpo, dall’altra anche e soprattutto che, essendo il solo privo di pungiglione, si segnalasse per il carattere pacifico e per l’incapacità di nuocere. La conclusione di Seneca, è che il re dell’alveare, in virtù di queste sue caratteristiche, dovrebbe costituire il modello di riferimento per tutti i grandi re, proprio perché la natura di solito offre grandi esempi nelle cose più piccole.

 

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